La politica

La politica

NOTA BENE:

il materiale di seguito riportato è di proprietà di Fabrizio Cinus, in quanto proveniente dalla tesi di Laurea Magistrale dal titolo “La questione di Mandera fra Kenya e Somalia”, A.A. 2009-2010, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli studi di Cagliari.

In questa sezione verranno inseriti articoli riguardanti la storia politica del Kenya, dal periodo del protettorato inglese sino ad arrivare alle ultime elezioni, quelle del marzo 2013.

Tano tena: ancora cinque.

Questo uno degli slogan dei sostenitori di Uhuru Kenyatta. E Kenyatta ce l’ha fatta davvero. La sera dell’11 agosto 2017, dopo 3 giorni di scrutini, la IEBC [1] ha proclamato la sua vittoria alla presidenza della Repubblica del Kenya [2]. Non tutti i seggi sono stati scrutinati e i dati sono ancora in aggiornamento, ma il risultato non può più cambiare. Qui il video della proclamazione:

Come prevedibile la lotta per la presidenza ha riguardato soltanto Kenyatta e Odinga, mentre agli altri sono rimasti solo una manciata di voti, meno dell’1%. Questi i risultati al momento della proclamazione:

  • Uhuru Kenyatta è il Presidente con 8,203,290 voti che rappresentano il 54,27% dei voti totali e ha ottenuto almeno il 25% dei voti in 35 Contee; [3]
  • Raila Odinga ottiene 6,762,224 voti che rappresentano il 44,74% dei voti totali. Ha ottenuto almeno il 25% dei voti in 29 Contee; [4]
  • Joseph William Nthiga Nyagah ottiene 42,259 che rappresentano lo 0,28% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea;
  • Mohamed Abduba Dida ottiene 38,093 voti che rappresentano lo 0,25% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea;
  • John Ekuru Longoggy Aukot ottiene 27,311 voti che rappresentano lo 0,18% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea;
  • Japhet Kavinga Kaluyu ottiene 16,482 voti che rappresentano lo 0,11% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea;
  • Michael Wainaina Mwaura ottiene 13,257 che rappresentano lo 0,09% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea;
  • Shakhalaga Khwa Jirongo ottiene 11,705 voti che rappresentano lo 0,08% dei voti totali. Non ottiene il 25% dei voti in nessuna Contea. [5]

Nella Nairobi County Odinga ha ottenuto la maggioranza dei voti con il 51,04% contro il 48,45% di Kenyatta; nella “Prisons” County ha vinto Odinga con il 54,15% dei voti contro il 45,16% di Kenyatta; nella “Diaspora” County ha vinto Kenyatta con il 52,88% dei voti contro il 46,45% di Odinga.

Per Raila Odinga questa è stata la 4^ candidatura alla presidenza, ma è sempre uscito sconfitto.

I risultati migliori sono stati ottenuti nelle contee abitate in prevalenza dagli appartenenti alla stessa tribù dei due candidati: Kenyatta, di tribù Kikuyu, si impone nella Nyandarua County con il 98,99% dei voti contro lo 0,8% di Odinga, mentre questo, di tribù Luo, si impone nella Siaya County con il 99,11% dei voti contro lo 0,67% di Kenyatta.

Non solo presidenziali: si votava anche per eleggere i membri del Parlamento, i membri delle Assemblee delle Contee, i Senatori, i Governatori e i Rappresentanti delle donne.

La giornata di elezioni dell’8 agosto era iniziata presto per molti kenyani. I seggi sarebbero rimasti aperti dalle 6 del mattino sino alle 5 del pomeriggio, ma in tanti a Nairobi erano in coda ad attendere l’apertura dei seggi già prima di mezzanotte.

Tutto si è svolto senza troppi problemi se si esclude il fatto che quando tanti seggi stavano per chiudere e per iniziare il conteggio dei voti, nella Turkana County si stava per iniziare a votare. Il ritardo è stato causato dalle forti piogge che hanno impedito alla Commissione Elettorale Indipendente di fornire per tempo il materiale necessario alla votazione [6]. Anche in altri seggi ci sono stati dei ritardi, anche se non di questa portata. L’esercizio di voto è stato comunque assicurato a tutti e i seggi non hanno chiuso sino a quando non sono state smaltite tutte le code.

C’è stato anche qualche arresto da parte della polizia per chi aveva cercato di votare più di una volta in seggi diversi, ma si è trattato di qualche caso isolato. C’è stato inoltre un incidente nella Contea di Kisumu, dove un uomo di 64 anni è deceduto per un collasso dopo aver votato.

La 13^ elezione è terminata, e mentre Kenyatta tende la mano a Odinga per lavorare insieme per il paese, la Nasa Coalition protesta e lamenta brogli elettorali. Wetangula già durante la giornata di voto diceva che non avrebbero accettato elezioni poco credibili [7] e poco dopo Odinga lamentava la presenza di brogli durante la trasmissione dei dati, che sarebbero stati modificati a favore di Kenyatta, accusando poi gli osservatori internazionali diretti da John Kerry di non aver aiutato i Kenyani a risolvere questa disputa [8].

Intanto nel paese sono scoppiate le proteste per la rielezione di Kenyatta e il conto delle vittime aggiornato a domenica 13 agosto è di 24 secondo la KNHCR [9] (Commissione Nazionale del Kenya sui Diritti Umani), compresa una bambina di 10 anni, colpita mentre giocava con altri bambini. [10]

La speranza di tutti è che i disordini delle elezioni del 2007 siano solo un lontano ricordo e che le proteste che stanno scuotendo il paese in questi giorni finiscano senza ulteriori vittime.

[1] Independent Electoral and Boundaries Commission: La Commissione Elettorale Indipendente.

[2] Perché si possa essere proclamati Presidente bisogna rispettare due requisiti: ottenere il 50% +1 dei voti e ottenere almeno il 25% dei voti in almeno 24 contee delle 47 in cui è suddiviso il Kenya. Ci sono inoltre anche la Prisons County, cioè quella dei detenuti e la Diaspora County dei kenyani che vivono in Sudafrica, Tanzania, Uganda, Rwanda e Burundi.

[3] Kenyatta ha votato nella Mutomo Pri School, nella Makueni County in cui poi ha vinto Odinga.

[4] Odinga ha votato nella Kibera Pri School, nella Nairobi County, dove poi ha vinto.

[5] Dopo altri aggiornamenti i voti validi sono stati 15,166,968; quelli contestati 5,191; quelli nulli 403,358 e quelli dichiarati nulli dal Presidente del Seggio ma contestati da un candidato o da un rappresentante 2807.

[6] Citizen TV, https://citizentv.co.ke/news/polling-closes-countrywide-but-yet-to-start-in-parts-of-turkana-172521/.

[7] Standard, https://www.standardmedia.co.ke/elections2017/article/2001250701/wetangula-nasa-will-challenge-election-results-if-not-credible.

[8] Daily Nation, http://www.nation.co.ke/news/politics/Raila-Odinga-John-Kerry-election-observers/1064-4053284-12y5hqv/index.html.

[9] Kenya National Commission on Human Rights.

[10] Daily Nation, http://www.nation.co.ke/news/politics/Death-chaos-police-protesters-clash/1064-4055228-v8gacf/index.html.

Jubilee Party e Nasa.

Questi sono i due principali antagonisti nella corsa alla presidenza della Repubblica del Kenya per il 2017.

Le elezioni si terranno a breve, l’8 agosto, e come è normale che sia in occasioni come questa, nel paese c’è grande fermento in previsione di quel giorno, sia tra i candidati che tra la popolazione, dopo una campagna elettorale iniziata il 28 maggio e che è stata chiusa il 5 di agosto. Quindi due giorni di silenzio prima del voto.

Il Jubilee Alliance Party nasce nel 2016 su quella che era la Jubilee Coalition, una coalizione nata 4 anni prima, nel 2012, e che comprendeva questi due partiti: il The National Alliance e lo United Republican Party, il primo di Uhuru Kenyatta e il secondo di William Ruto. A questi si uniranno poi altri 9 partiti per formare il Jubilee Alliance Party, che è così formato da 11 partiti:

  • Lo United Republican Party
  • Il Party of National Unity
  • Lo United Democratic Forum
  • Il Ford People
  • Il Republican Congress
  • Il Grand National Union
  • Il Tip Tip
  • Lo Unity Party of Kenya
  • Il New Ford Kenya
  • Lo Alliance Party of Kenya
  • Il The National Alliance

Ma questo è un partito, non una coalizione. La decisione di fondersi in un unico partito è stata presa in modo multilaterale.

Il Jubilee Party è il partito del Presidente in carica, Uhuru Kenyatta, mentre candidato alla vice presidenza è William Ruto, alleato di Kenyatta ormai da tanti anni. Il nome della loro campagna elettorale in giro per il paese è UhuRuto 2017. Kenyatta per correre per la rielezione ha dalla sua il poter trovare forza dai risultati ottenuti in questi 4 anni di presidenza.

Il suo manifesto ovviamente ricorda agli elettori ciò che è stato fatto per il paese durante questi ultimi 4 anni e ciò che è loro intenzione fare per i prossimi 5 anni. È un manifesto semplice, conciso, che affronta tre macro temi principali, tre pilastri su cui si basa la sua politica: trasformare le vite, trasformare la società, trasformare la nazione. All’interno di questi tre pilastri ci sono tutti gli ambiti di intervento importanti per il Jubilee Party: dalla sanità alla lotta alla corruzione [1], dall’istruzione al turismo alla sicurezza del paese, passando anche per problemi come la carenza di abitazioni decorose e cibo e acqua potabile per la popolazione.

Dal sito web del partito si può scaricare il manifesto.

La Nasa (National Super Alliance) è invece la coalizione che sostiene l’altro maggior  candidato alla presidenza: Raila Odinga.

A questa coalizione partecipano 5 partiti:

  • L’Orange Democratic Movement (ODM) di Raila Odinga,
  • Lo Wiper Democratic Movement-Kenya (WDM-K) di Kalonzo Musyoka (Candidato alla vice presidenza),
  • Lo Amani National Congress (ANC) di Musalia Mudavadi,
  • Il Forum for the Restoration of Democracy-Kenya (FORD-K) di Moses Wetangula, e
  • Il Chama Cha Mashinani (CCM) di Isaac Ruto.

Il loro sito web è molto accattivante, a differenza di quello del Jubilee Party che è molto disordinato, ma i giudizi si invertono esaminando i loro manifesti: a quello semplice, conciso e con tante foto di quello del Jubilee Party si contrappone quello della Nasa (qui il loro manifesto), che ho trovato molto meno preciso e con rarissimi dati, ma solo con accuse di fallimenti al governo in carica (come è naturale che sia), e proposte di miglioramento senza indicare come e con quali risorse portare quei miglioramenti.

Per la Nasa i pilastri su cui è necessario intervenire sono sei: la costruzione della Nazione, la costruzione dello Stato, la trasformazione del Governo, la realizzazione dei diritti economici e sociali, il creare lavoro e sradicare la povertà e infine la cooperazione regionale e internazionale.

Nel concreto gli ambiti di intervento sono gli stessi del Jubilee Party, ma quelli della Nasa pongono l’accento sulla Costituzione e sulla necessità di attuarla, lasciando quindi intendere che le mancanze e i fallimenti del governo in carica siano da attribuire al fatto di non rispettare la Costituzione vigente.

La Nasa si propone quindi come la Coalizione della Costituzione.

Sono inoltre presenti ben altri sei candidati minori alla presidenza della Repubblica del Kenya, portando quindi il numero di candidati a otto, mentre altri cinque erano stati respinti perché non possedevano i requisiti richiesti. Oltre a Kenyatta e Odinga abbiamo quindi:

  • Mohamed Abduba Dida, candidato del The Alliance for Real Change (ARK),
  • John Ekuru Longoggy Akuot, candidato del partito Thirdway Alliance Kenya (TAK),
  • Shakhalaga Khwa Jirongo, candidato dello United Democratic Party (UDP),
  • Japhet Kavinga Kaluyu, candidato indipendente,
  • Michael Wainaina Mwaura, candidato indipendente,
  • Joseph William Nthiga Nyagah, candidato indipendente. [2]

Discorso a parte meritano i dibattiti presidenziali che, trasmessi in tv, aiutano la popolazione a capire meglio i programmi politici dei candidati. Al dibattito del 24 luglio, che potete vedere nel video qui sotto,

si è presentato solo Odinga, che ha potuto così parlare per un’ora e mezza, ma ha anche dovuto rispondere a domande pungenti. Alla fine ha dichiarato che avrebbe voluto il confronto con Kenyatta. Le reazioni alla non presenza del presidente sono state varie, e in tanti hanno ritenuto il suo comportamento una mancanza di rispetto verso la popolazione, ma Uhuru Kenyatta si è difeso dichiarando che secondo lui il dibattito era una finzione e che sarebbe stato uno spettacolo, non un dibattito. Qui potete trovare due servizi sull’argomento con le sue dichiarazioni:

Lo stesso giorno, prima del confronto previsto tra Kenyatta e Odinga, c’è stato l’altro confronto tra gli altri 6 candidati minori, ma anche lì non tutti si sono presentati.

Argomento importante da menzionare è la questione sicurezza legata alla trasparenza delle elezioni: nella giornata di domenica 30 luglio è stato rinvenuto il corpo senza vita di Christopher Msando, la persona che dirigeva il dipartimento del sistema elettronico delle elezioni, parte della IEBC (Independent Electoral and Boundaries Commission), la Commissione Elettorale Indipendente. Msando era sparito qualche giorno prima e le indagini hanno rivelato che sia stato torturato e poi strangolato a morte [3]. Questo ha attirato l’attenzione delle ambasciate di Stati Uniti e Regno Unito, e ora si mette in dubbio la credibilità delle elezioni che potrebbero non essere trasparenti.

Il giorno delle elezioni è ormai alle porte, e si spera che siano prima di tutto elezioni pacifiche, ma anche oneste e trasparenti. L’augurio che possiamo fare al Kenya è che dopo lo spoglio elettorale venga dichiarata vincente la parte che saprà meglio mantenere le promesse fatte durante la campagna elettorale.

[1] L’indice di percezione della corruzione (Cpi) misura annualmente la percezione della corruzione in un dato paese presso operatori e analisti del rischio. Il valore varia tra 0 (corruzione onnipresente) e 100 (nessuna corruzione). Nel 2016 il Kenya ha un valore pari a 26 e si posiziona al 145° posto su 176 paesi, mentre l’Italia è al 60° posto con un valore pari 47. Transparency International, https://www.transparency.org/news/feature/corruption_perceptions_index_2016#table.

[2] Maggiori informazioni su Africanews, http://www.africanews.com/2017/08/02/meet-the-eight-candidates-for-kenya-s-2017-presidential-elections/.

[3] http://nairobinews.nation.co.ke/news/revealed-chris-msando-met-death/.

L’articolo originale è pubblicato sul sito AFFRICA a questo indirizzo: Dal Kenya: “Ce l’abbiamo fatta, elezioni senza violenze!”

  • 2013, le ultime elezioni

Il 9 marzo 2013, dopo cinque giorni di scrutini, di fiato sospeso e di attesa per qualcosa che si percepiva nell’aria ed era nell’aspettativa di tanti kenyani, la IEBC (Indipendent Electoral and Boundaries Commission), la Commissione che ha il compito di organizzare le elezioni in Kenya e di vigilare sulla loro correttezza e libertà, proclama Uhuru Muigai Kenyatta quale quarto Presidente del Kenya.

Kenyatta, della tribù Kikuyu e figlio del Padre della Patria e primo presidente del Kenya Jomo Kenyatta, riesce a spuntarla su Raila Omollo Odinga, della tribù Luo e figlio di Oginga Odinga, un altro politico che ha fatto la storia del Kenya durante e dopo l’indipendenza ottenuta dalla Gran Bretagna il 12 dicembre 1963. La differenza tra i due candidati è di circa 800 mila voti (6.173.433 voti per Kenyatta, sostenuto dalla Jubilee Coalition, contro i 5.340.546 voti per Odinga, sostenuto dalla CORD (Coalition for Reforms and Democracy), ma ancora più importante è l’eccedenza di appena lo 0.3%, cioè appena 8.419 voti, rispetto al 50%, soglia sotto la quale si sarebbe andati al ballottaggio.

Gli altri sei candidati si sono dovuti accontentare delle briciole, con il solo Musalia Mudavadi, della tribù Luhya, che ha ottenuto circa il 4% dei voti, mentre gli altri si sono fermati ad una percentuale inferiore all’1%.

L’affluenza è stata molto alta in tutte le contee del Kenya, a dimostrazione di una popolazione che si sente coinvolta nella vita politica del paese, tanto che subito dopo la proclamazione in tanti si sono riversati nelle strade per festeggiare. Kenyatta e Odinga si sono imposti in modo assoluto nelle contee di loro competenza, vale a dire quelle abitate prevalentemente dalla popolazione appartenente alla propria di tribù di appartenenza, ad esempio nella Murang’a County Kenyatta ha ottenuto 370.099 voti contro i 9827 voti di Odinga, situazione che viene ribaltata completamente nella Siaya County, dove Kenyatta riceve appena 884 voti contro i 284.031 voti di Odinga, e a dimostrazione che, nonostante i tanti proclami, l’appartenenza tribale ha ancora un ruolo molto forte. Nella Nairobi County la lotta tra i due candidati è serratissima, e Kenyatta si afferma per appena 39.392 voti (640.296 contro 600.904 voti).

Insieme al Presidente sono stati eletti anche 47 Governatori, 47 Senatori e 47 rappresentanti delle donne nel parlamento delle contee e 290 Membri dell’Assemblea Nazionale. [40]

In generale sono state elezioni pacifiche, eccettuati alcuni scontri il giorno delle elezioni nella zona di Mombasa e a Mandera, nel nord-est del paese, e qualche giorno prima scontri si erano verificati a Kilifi, città costiera a nord di Mombasa [41]: gli occhi di tutti erano puntati sul Kenya dopo i fatti che seguirono le elezioni del 2007, ma i candidati hanno mantenuto le promesse di elezioni pacifiche fatte alla propria popolazione e all’Occidente, e i kenyani hanno seguito la volontà dei propri candidati e infatti, dopo la proclamazione del vincitore le uniche proteste, comunque pacifiche, sono arrivate dal candidato sconfitto, Odinga, che ha chiesto un nuovo conteggio dei voti.

La vittoria di Kenyatta è forse un po’ guastata dall’inchiesta del Tribunale Penale Internazionale che pende su di lui e sul suo alleato principale, William Ruto, accusati di crimini contro l’umanità, ancora relativamente ai disordini seguiti alle ultime elezioni, e che hanno portato gli USA e la Gran Bretagna a prevedere riserve nei rapporti con il Kenya in caso di vittoria di Kenyatta [42].

Ma il Kenya sembra di nuovo il paese tranquillo a cui ci aveva abituato prima del 2007, e tante speranze vengono riposte su Uhuru Kenyatta, che a oggi, con i suoi 55 anni, è il più giovane Presidente del Kenya e il primo figlio di un ex Presidente. [43]

[40] Sunday Nation del 10 marzo 2013.

[41] Versione online del quotidiano La Stampa, LASTAMPA.it, http://www.lastampa.it/2013/03/04/esteri/kenya-scontri-per-le-elezioni-morti-wpJZq42ey2uXvZsrmev2NP/pagina.html.

[42] Rinascita, http://www.rinascita.eu/index.php?action=news&id=19620.

[43] Sunday Nation del 10 marzo 2013.

NOTA BENE: Tratto dalla tesi di Laurea Magistrale di Fabrizio Cinus dal titolo “La questione di Mandera fra Kenya e Somalia”, A.A. 2009-2010, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Cagliari.

=> Qui la prima parte dell’articolo <=

Una lezione i kenyani l’hanno forse imparata, soprattutto il Presidente Kibaki e il Primo Ministro Odinga, i quali hanno dichiarato fermamente che eventi come quelli del dopo elezioni 2007 non dovranno mai più verificarsi. I pensieri sono già rivolti alle elezioni del 2012, alle quali l’attuale Presidente, ormai anziano, ha dichiarato di non aver intenzione di partecipare. Con queste premesse l’avvicendamento alla Presidenza è certo, ma bisogna capire se si verificherà un avvicendamento anche per quel che riguarda la leadership tra le tribù. Ora in ogni caso il primo problema che si presenta ai politici kenyani è quello di implementare la nuova Costituzione, soprattutto nel segno della trasparenza e della lotta alla corruzione, e il Parlamento kenyano sembra entrato in un vortice che parrebbe inarrestabile, dove i politici che si sono macchiati di colpe e reati vengono messi sotto pressione e costretti a dimettersi, come il già citato William Ruto, o come Moses Wetang’ula, Ministro degli Esteri, coinvolto in uno scandalo per aver dichiarato di aver acquistato un lotto in Giappone per la costruzione dell’ambasciata kenyana mentre in realtà quel lotto risulta donato gratuitamente dal Giappone [24].

La corruzione sembra essere una pratica dalla quale il Kenya non riesce proprio a liberarsi. Piaga già presente abbondantemente durante il periodo Moi, quando la popolazione, per ottenere che anche le più semplici pratiche burocratiche o i servizi venissero espletate dai funzionari, era costretta ad organizzare harambee [25] all’interno dei villaggi e nelle chiese per dover pagare tangenti a tutti i funzionari che mettevano mano alle loro pratiche. Un tentativo di mettere fine alla corruzione si ebbe nel 2004, quando, durante il periodo Kibaki, ci fu un incidente diplomatico con l’ambasciatore svedese e con l’ambasciatore inglese Sir Edward Clay, i quali minacciarono di arrestare l’invio dei fondi al paese se il governo non avesse tentato di porre un argine alla corruzione. [26]

Eppure, nonostante i richiami dall’estero, di quelli da parte del governo e i numerosi avvisi in tutti gli uffici (This office is a corruption free zone) che ricordano alla popolazione che corrompere e lasciarsi corrompere è una mal-pratica che danneggia il Kenya, il problema non sembra essersi arrestato [27]. Del resto bisogna riconoscere che la corruzione non riguarda solo il Kenya ma anche gli altri paesi africani, e soprattutto non riguarda solo l’Africa, ma è presente in tutti i paesi, sia che questi appartengano al “Sud” che al “Nord” del mondo. A questo proposito si può esaminare l’Indice di percezione della corruzione (Cpi) elaborato da Transparency International. Come riporta Carbone, “Il Cpi è un indice che misura annualmente la percezione della corruzione in un dato paese presso operatori e analisti del rischio, e varia tra un valore massimo di 10 (non si percepisce presenza di corruzione) e un minimo di 0 (percezione di una corruzione onnipresente.)”. [28] Dai dati del 2010 si rileva che il Kenya, su un totale di 178 paesi, si attesta al 154° posto, con un Cpi di 2,1 e quindi con una percezione della corruzione abbastanza alta. Dal 2001 al 2010 la misura del Cpi si è aggirata sempre su questi livelli, perciò si può ritenere che siano stati fatti pochi passi in avanti nella lotta alla corruzione. L’ultima posizione nei dati del 2010 [29] è proprio della Somalia con un Cpi di 1,1. Dato non sorprendente, vista la situazione in quel paese, che tra quelli in cui viene calcolato questo indice è sempre in ultima posizione. [30]

Il 27 agosto 2010, alle ore 10:27 del mattino, dal palco dell’Uhuru Park, (il Parco della Libertà), situato nel centro di Nairobi, il Presidente della Jamhuri ya Kenya (Repubblica del Kenya) Mwai Kibaki ha inaugurato la Seconda Repubblica e relegato così alla storia la Prima Repubblica del Kenya, che aveva operato per 47 anni. L’evento si è svolto davanti a vari capi di Stato africani, tra i quali Yowery Museveni, presidente dell’Uganda, Jakaya Kikwete, presidente della Tanzania, Paul Kagame, presidente del Rwanda, Ahmed Abdallah Sambi, presidente delle Comore e Omar al-Bashir, presidente del Sudan [31]; davanti ai rappresentanti religiosi islamico e cristiano, e davanti a migliaia di persone esultanti. [32] Questo evento è stato possibile a seguito di un referendum popolare che ha visto trionfare i “sì”, favorevoli al cambiamento della Costituzione, con il 67% dei consensi. Il referendum, che riguardava una proposta di Costituzione approvata dal Parlamento il primo di aprile dello stesso anno, è stato effettuato il 4 di agosto, appena tre settimane prima della seguente promulgazione, e secondo i risultati i “no” hanno trionfato in una sola provincia delle otto in cui è suddiviso il Kenya. [33] Una nuova Costituzione che chiaramente non ha mancato di suscitare polemiche proprio a causa delle modifiche proposte, come ad esempio le proteste della Chiesa cristiana che riguardano due questioni: da una parte la decisione di spostare il momento dell’inizio della vita dal concepimento a quello della nascita, cosa che di fatto legalizzerebbe l’aborto, che secondo la nuova Costituzione è ora permesso in caso di pericolo di vita per la madre per motivi legati alla gravidanza, o se ciò “è permesso da ogni altra legge scritta” [34]; dall’altra la protesta verte invece sulla questione del riconoscimento delle corti civili islamiche [35]. Eppure ci sono modifiche importanti, alcune assolutamente innovative per il paese, come quelle di equiparare la lingua Swahili all’Inglese e “promuoverla” così a lingua ufficiale, di modo che anche negli uffici si possa parlare il Kiswahili [36]; come pure il non permettere la vendita di terre agli stranieri, che ora possono solo affittarle per un periodo di 99 anni, (divieto che è stato già aggirato attraverso l’utilizzo di prestanome); mentre per i cittadini una grande novità è la possibilità anche per le donne di essere proprietarie della terra; c’è stata infine l’introduzione della doppia cittadinanza. Alcune modifiche sono state dettate dagli scontri avvenuti durante il periodo che ha seguito le ultime elezioni politiche, quelle del dicembre 2007: a livello istituzionale le novità riguardano la decisione di istituire il Senato e quella di dare poteri ad un Primo Ministro, ma di ritrasformare il paese in una Repubblica Presidenziale a partire dal 2016, quindi di tornare nuovamente all’eliminazione della carica di Primo Ministro, carica che appunto era stata introdotta dopo le già citate elezioni. Una modifica particolare, non priva di significato, è stata la decisione di togliere dalle banconote e dalle monete locali, lo scellino kenyano, il volto dell’ex presidente della Repubblica Daniel T. arap Moi, peraltro presente anch’egli alla promulgazione della Costituzione. Il Presidente Kibaki non ha mai posto il suo volto sulla valuta locale, a parte la rara moneta da 40 scellini coniata nel 2003 per festeggiare i 40 anni di indipendenza, e così ora l’unico presidente raffigurato nelle banconote e nelle monete è il primo presidente, Jomo Kenyatta. È stato inoltre annullato dal calendario il Moi Day, una festa nazionale che si teneva il venti di ottobre, sostituita quest’anno per la prima volta con il Mashujaa Day, cioè la “giornata degli eroi” [37]. La motivazione di queste due ultime decisioni risiede nel fatto che il periodo Moi viene riconosciuto come un periodo di dittatura.

I 47 anni della Prima Repubblica avevano visto succedersi alla presidenza solamente tre presidenti, Jomo Kenyatta, Daniel arap Moi e l’attuale presidente Mwai Kibaki. Il Kenya rientrava nella tipologia dei paesi con un sistema autoritario, con la presenza di un regime a partito unico, nello specifico il Kenya African National Union (KANU) [38], e plebiscitario, dove cioè la popolazione doveva solo limitarsi a ratificare quella che era la scelta dei candidati effettuata dal partito. [39]

[24] Sunday Nation (Kenya), 24 ottobre 2010.

[25] Termine Swahili che significa adunata, un incitamento ad agire insieme, utilizzato anche nelle occasioni di raccolta del denaro.

[26] Da un’intervista rilasciata all’autore da Francis Kirira, District Development Officer (DDO) of Laikipia, (Assessore Distrettuale allo Sviluppo nella città di Nanyuki), agosto 2007.

[27] Durante il lavoro di ricerca l’autore ha potuto assistere personalmente a episodi di corruzione che coinvolgevano agenti di polizia, in un modo che mostrava come quella situazione fosse già programmata e si ripetesse continuamente. Eppure il corpo di polizia ha recentemente avuto un aumento di stipendio di ben il 20%. [NdA]

[28] G. CARBONE, op. cit., p. 84.

[29] Una curiosità: anche l’Italia non gode di buona salute rispetto alla corruzione, in quanto, se nel 2003 il Cpi era 5,3, con una percezione quindi a metà strada tra i livelli massimo e minimo, nel corso degli anni è via via peggiorata, sino a raggiungere il livello di 3,9 per il 2010. www.transparency.org.

[30] www.transparency.org. Quelli del 2010 in: http://www.transparency.org/policy_research/surveys_indices/cpi/2010/results.

[31] La presenza del Presidente al-Bashir ha suscitato dure polemiche tra la classe politica e tra la popolazione, che cercava di capire chi avesse provveduto all’invito del Presidente sudanese, anche perché il suo nome all’inizio non rientrava tra le personalità presenti. Il motivo è che al Presidente del Sudan sono stati imputati tre capi d’accusa per genocidio, cinque per crimini contro l’umanità e due per crimini di guerra, tutti legati ai disordini che affliggono il suo paese, soprattutto nella zona del Darfur. Il Kenya, che avrebbe dovuto arrestarlo perché Stato membro della Corte Penale Internazionale, si è invece rifiutata. Saturday Nation (Kenya), 28 agosto 2010; http://www.guardian.co.uk/world/2010/aug/29/kenya-omar-al-bashir-arrest-failurehttp://www.npwj.org/content/31082010-NPWJ-News-Digest-international-criminal-justice.html.

[32] Saturday Nation (Kenya), 28 agosto 2010.

[33] Daily Nation (Kenya), 5 agosto 2010.

[34] Agenzia Fides, http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=34314&lan=ita, 6 agosto 2010.

[35] Avvenire, http://www.avvenire.it/GiornaleWEB2008/Templates/Articles/Article.aspx?NRMODE=Published&NRNODEGUID=%7b6BB81740-1C83-4DA3-8F11-4EC822E0FD0D%7d&NRORIGINALURL=%2fCommenti%2fKenya_referendum_albanese_201008040725586970000%2ehtm&NRCACHEHINT=NoModifyGuest#, 4 agosto 2010.

[36] C’è però da rilevare che qualcuno, soprattutto tra gli anziani, non riesce a parlare né in lingua inglese, ma non riesce neppure a conversare in lingua swahili, essendo in grado di utilizzare solamente la lingua della propria tribù.

[37] Ogni kenyano in questo giorno può scegliere e festeggiare una persona di cui egli ha stima, anche se questi non è famoso o conosciuto. È diventata una ricorrenza strettamente personale.

[38] Il KANU, formatosi nel 1960, aveva come obiettivo quello di unire tutti gli Africani nella lotta contro gli inglesi per portare il Kenya a divenire uno Stato africano. S. N. BOGONKO, Kenya 1945-1963. A study in African National Movements, Kenya Literature Bureau, Nairobi 1990, p. 245.

[39] G. CARBONE, L’Africa, Gli stati, la politica, i conflitti, Edizioni Il Mulino, Bologna 2005, pp. 81-82

NOTA BENE: Tratto dalla tesi di Laurea Magistrale di Fabrizio Cinus dal titolo “La questione di Mandera fra Kenya e Somalia”, A.A. 2009-2010, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Cagliari.

  • L’era Kibaki (2002-2010)

Dopo quasi 40 anni di indipendenza e una endemica divisione tribale che permeava tutta la società, nasceva la National Rainbow Coalition (NARC), con Emilio Mwai Kibaki, appartenente alla tribù Kikuyu, come leader. La coalizione, formata da 15 partiti, riuniva al suo interno varie tribù, e alle elezioni del 2002 riuscì a diventare la prima forza in campo vincendo le elezioni. Il KANU, guidato allora da Uhuru Kenyatta, figlio del primo presidente, in quell’occasione riuscì a raccogliere solo il 31 per cento dei voti. [13] L’esperienza della NARC non durò a lungo a causa dei dissidi interni inerenti da una parte all’appartenenza tribale, che non avevano trovato soluzione con la formazione della coalizione, e dall’altra alla divisione del potere. [14]

La prima consultazione referendaria della storia del Kenya indipendente che aveva come oggetto il tentativo di riforma costituzionale venne proposta alla fine del 2005. Alcune delle proposte furono quelle che poi vennero riportate anche nel referendum del 2010, ma in quell’anno la popolazione decise per il “no”, e le modifiche proposte alla carta costituzionale vennero bocciate con il 58 per cento dei voti. Per facilitare i cittadini nel voto, le risposte vennero accostate a dei simboli che potevano essere ricordati facilmente dalla popolazione: il “sì” era identificato con la banana, il “no” con l’arancia.

Le proposte di modifica non ebbero contro solo la maggioranza dei votanti, ma anche alcuni partiti all’interno della coalizione di governo, e questo causò lo sfaldamento della coalizione e la perdita della maggioranza al governo. [15]

Kibaki, per correre ai ripari in previsione delle elezioni del 2007, formò un proprio partito, il Party of National Unity (PNU), ricorrendo alla fiducia da parte di personaggi della Central Province, la sua terra d’origine, e trovando l’alleanza anche di Uhuru Kenyatta.

Le elezioni del dicembre 2007 segnano un momento particolare e tragico della storia del Kenya. I partiti più influenti erano il PNU del presidente in carica, l’Orange Democratic Movement (ODM) guidato da Raila Odinga e l’Orange Democratic Movement – Kenya (ODM-K) guidato da Kalonzo Musyoka. Anche in questo caso è possibile e importante notare, per quelli che furono gli sviluppi degli eventi futuri, la diversità di appartenenza tribale: Kibaki è un Kikuyu e Odinga è un Luo. Musyoka è invece un Kamba.

Il 27 dicembre dello stesso anno i cittadini kenyani furono chiamati alle urne per le elezioni presidenziali, per le politiche e per le amministrative. Dopo quattro giorni di spoglio la Commissione elettore del Kenya (ECK) riconfermò Kibaki alla Presidenza della Repubblica con il 47 per cento dei voti e cioè circa quattro milioni e mezzo di consensi, e “secondo classificato” Odinga con il 44 per cento dei voti e circa quattro milioni e trecento mila consensi. Uno scarto minimo, di appena 200 mila voti, grazie ad un sorpasso di Kibaki avvenuto nelle ultime ore dello spoglio. La chiara delusione di Odinga fu data anche dal fatto che a livello provinciale l’ODM si aggiudicò sei province delle otto totali, che gli permisero di ottenere una netta maggioranza in Parlamento, 100 seggi contro i 44 per il partito del Presidente. [16] Il fattore tribale è chiaro dai dati, in quanto i due candidati hanno stravinto nelle proprie province di appartenenza. [17] Le accuse di brogli non si fecero attendere da parte dello sconfitto, in particolare riguardo al fatto che in alcuni collegi risultavano più voti rispetto al numero di elettori iscritti.

A distanza di alcuni mesi da quei fatti si scoprì che sia Kibaki che la Commissione elettorale sapevano che gli scontri sarebbero scoppiati comunque dopo le elezioni, come se Odinga avesse già preparato la rivolta anche in caso di vittoria. A dimostrazione che la tensione nel Paese fosse già alta ancor prima delle elezioni si può citare il caso di un candidato parlamentare colpito da una freccia durante un suo comizio. [18]

Fatto sta che in Kenya l’anno nuovo portò sia la proclamazione sbrigativa di Kibaki alla Presidenza [19], il quale appena reinsediatosi vietò la diretta delle trasmissioni televisive e radiofoniche, sia scontri che portarono il paese ad un passo dalla guerra civile, secondo quella che è la definizione di guerra civile riportata da Carbone [20]: “… un conflitto armato che vede da una parte le autorità di uno stato formalmente sovrano e dall’altra attori non statuali che a esse si oppongono, facendo un uso organizzato della violenza, con l’obiettivo di modificare qualche aspetto dello status quo sociale, politico o economico …” Infatti in alcune zone i manifestanti attaccarono direttamente edifici dello Stato, come ad esempio le Poste. Ma questi furono anche scontri di carattere interetnico o tribale, perché i soggetti coinvolti erano i Kikuyu e i Luo, le stesse tribù protagoniste e antagoniste fin dai primi anni dell’indipendenza. I Luo non sono mai riusciti ad andare al potere, nonostante siano una delle tribù più numerose, e probabilmente la consapevolezza di dover necessariamente vincere per riuscire a migliorare le condizioni della propria provincia di appartenenza ha portato ad un forte risentimento in seguito all’ennesima sconfitta. [21]

Alla fine degli scontri i morti vennero calcolati intorno ai 1000 e gli sfollati intorno ai 500 mila. Il Presidente Kibaki e Raila Odinga hanno in seguito raggiunto un accordo con la mediazione di Kofi Annan, inviato dall’ONU, per la formazione di un governo di coalizione che vedeva, oltre alla conferma di Kibaki alla Presidenza, l’istituzione della carica di Primo Ministro, nella persona di Raila Odinga, e di quelle dei suoi due vice, Kenyatta e Mudavadi. Vicepresidente verrà nominato Kalonzo Musyoka. [22]

Visitando una zona dello slum di Korogocho, uno dei più conosciuti slum di Nairobi, è possibile ancora vedere il punto di separazione tra la zona abitata dai Kikuyu e quella abitata dai Luo, confine dove i due gruppi tribali arrivarono allo scontro durante i disordini. Intorno, a distanza di tre anni, sono ancora presenti case un tempo abitate ma che ora si presentano solo come edifici fatiscenti dati alle fiamme. Accanto alla città di Nanyuki, nella contea di Laikipia East, nella provincia della Rift Valley, è stato organizzato uno dei campi profughi, dove ora abitano ex sfollati a conseguenza degli scontri post elettorali.

La Corte Penale Internazionale ha successivamente avviato un’inchiesta per dare un nome alle persone che hanno alimentato gli scontri e scoprire chi si fosse macchiato di qualche crimine durante gli stessi. Il Procuratore della CPI Luis Moreno-Ocampo il 15 dicembre 2010 ha finalmente reso noti i nomi dei sei politici accusati di aver organizzato le violenze post elettorali. Tra questi vi sono anche personaggi di prestigio, sia dalla parte del governo che da quella dell’opposizione: Uhuru Kenyatta, che in questo governo è Vice Primo Ministro e Ministro delle Finanze; William Ruto, costretto già a ritirarsi dal Parlamento per via delle accuse mentre era Ministro dell’Educazione; l’ex capo della polizia Mohammed Hussein Ali; Francis Muthaura, che occupa il ruolo di Capo dei servizi pubblici del Kenya; il Ministro per l’Industrializzazione Henry Kosgey e il presentatore radiofonico Joshua Arap Sang. Il Presidente ha comunque dichiarato che sino a quando le accuse non saranno provate i Ministri sono da considerarsi innocenti, come loro del resto si dichiarano, e quindi non ne chiederà le dimissioni. [23]

[13] Ivi, p. 373.

[14] Da un’intervista rilasciata all’autore da Francis Kirira, District Development Officer (DDO) of Laikipia, (Assessore allo Sviluppo nella città di Nanyuki), agosto 2007.

[15] Africa South of the Sahara 2010, p. 624.

[16] Inizialmente il risultato delle elezioni parlamentari si era fermato con l’assegnazione di 99 seggi all’ODM e 43 al PNU essendo state annullate le elezioni in due constituency, quella di Kilgoris, nella Rift Valley Province, e quella di Wajir North, nella North Eastern Province. Le elezioni vennero ripetute a distanza di qualche mese e a Kilgoris vinse il PNU mentre a Wajir North vinse l’ODM. Office of Government Spokesperson, Election Results 2007www.communication.go.ke.

[17] http://www.communication.go.ke/elections/province.asp.

[18] Daily Nation (Kenya), 18 luglio 2008.

[19] Il risultato delle elezioni non venne peraltro modificato dalle indagini compiute dalla Commissione Elettorale, il cui Presidente Samuel Kivuitu ammise l’esistenza di errori nel conteggio dei voti, ma questi, essendo “solo” 50 mila, di cui circa 29 mila per l’ODM-K, circa 21 mila per il PNU e circa 8 mila per l’ODM, non potrebbero influire sul divario di 200 mila voti inizialmente esistenti tra il partito del Presidente e il partito di Odinga.

[20] G. CARBONE, op. cit., p. 93.

[21] B. BERNARDI, Nel nome d’Africa, Ed. Franco Angeli, Milano 2001.

[22] Africa South of the Sahara 2010, pp. 625-626.

[23] Agenzia Fides, http://www.fides.org/aree/news/newsdet.php?idnews=35248&lan=ita,16 dicembre 2010.

NOTA BENE: Tratto dalla tesi di Laurea Magistrale di Fabrizio Cinus dal titolo “La questione di Mandera fra Kenya e Somalia”, A.A. 2009-2010, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Cagliari.

  • Il periodo Moi (1978-2002)

Nel 1978 il primo presidente del Kenya moriva e gli succedeva il suo vicepresidente, Daniel Toroitich arap Moi, appartenente alla tribù Kalenjin, della provincia della Rift Valley, che avrebbe inaugurato un periodo di dittatura che portò terrore tra i kenyani, ma che con il tempo diede l’impulso allo sviluppo di un’opposizione armata al regime.

Il movimento prese il nome Saba Saba, termine che in lingua Swahili significa “Sette Sette” e che si riferisce al giorno e al mese, quando cioè si potevano scatenare gli attacchi [9]. Nel 1999, proprio il giorno del sette di luglio, per le strade di Nairobi si notava la frenesia e si percepiva la paura delle persone che non sapevano se e quando qualcosa sarebbe successo e cercavano di non stare fermi in un solo posto troppo a lungo.

Inoltre, nel 1982 ci fu un tentativo piuttosto maldestro di colpo di stato, durante il quale l’aviazione prese il controllo della radio, delle Poste e dell’aeroporto. La popolazione, invece di sostenere il colpo di stato iniziò a saccheggiare i negozi, e solo l’intervento della polizia riportò la situazione alla normalità. [10] 

Ma questo coup diede la possibilità al governo Moi di intensificare e giustificare la repressione già in atto: vennero introdotti sistemi di giustizia “breve”, ondate di arresti e di condanne a morte tra i militari dell’aviazione e gli studenti, detenzioni senza processo. [11]

Il colpo di stato, secondo quanto appreso da una testimonianza anonima, era guidato da Raila Odinga, il figlio di Oginga e, prosegue il testimone, sembra che da quel momento in poi Moi dovette sottostare ai voleri dell’allora Capo della polizia Mohammed Hussein Ali, facendo quindi diventare il Kenya una sorta di regime militare camuffato.

Il tentativo fallito di colpo di stato potrebbe forse essere la conseguenza della decisione di Moi di fare del KANU un partito unico de jure proprio dal 1982. Le elezioni degli anni Novanta videro ancora il successo del KANU e di Moi, facilitati anche da un’opposizione non coesa, ma l’arena politica dopo le elezioni del 1997 divenne cruciale per persone e gruppi e tribù che volevano riscattarsi e cercare di sfruttare al massimo la loro posizione in caso di vittoria alle elezioni successive, in quanto il Presidente era stato costretto ad accettare un emendamento costituzionale secondo il quale non avrebbe potuto candidarsi alle elezioni del 2002. [12] Il cambiamento di presidenza, dopo più di vent’anni di regime era ormai certo, bisognava solo cercare di riscuotere più credito e avere più sostenitori dei propri avversari.

[9] Ad esempio poteva essere il 4 di aprile, il 6 di giugno, il 7 di luglio, eccetera.

[10] V. KHAPOYA, “Moi and beyond: Towards Peaceful Succession in Kenya?”, in Third World Quarterly, Vol. 10, No. 1, Succession in the South (Jan., 1988), published by Taylor & Francis, Ltd., p. 57.

[11] “Repression Intensifies in Kenya: The Need for Solidarity”, in Review of African Political Economy, No. 25, (Sep. – Dec. 1982), published by Taylor & Francis, Ltd., p. 113.

[12] A. M. GENTILI, op. cit., p. 372

NOTA BENE: Tratto dalla tesi di Laurea Magistrale di Fabrizio Cinus dal titolo “La questione di Mandera fra Kenya e Somalia”, A.A. 2009-2010, Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi di Cagliari.

  • L’era Kenyatta (1963-1978)

Mzee [1] Jomo Kenyatta è stato il primo presidente della Repubblica del Kenya, celebrato come “padre della patria” per quello che è stato il suo ruolo durante la lotta contro gli inglesi in favore dell’indipendenza.

Sul paese, conosciuto in quel periodo come British East Africa, fu costituito un protettorato nel 1895 e l’Inghilterra ne fece una colonia di popolamento. L’occupazione delle terre da parte dei coloni scatenò delle resistenze nel 1914, ma si dovette attendere ancora sei anni prima che i kenyani si organizzassero con attività di tipo politico. Il KAU, (Kenya African Union) venne fondato nel 1944 e tre anni dopo la leadership passò a Jomo Kenyatta, appartenente alla tribù Kikuyu, come peraltro la maggior parte degli aderenti al movimento. [2]

Nel 1950 venne costituito un movimento, una setta politico-religiosa di opposizione agli inglesi, i Mau Mau, e due anni dopo iniziò la rivolta che per quattro anni vide i Kikuyu e poi anche altre tribù lottare ferocemente contro i colonizzatori e contro gli africani che li appoggiavano.

Gli inglesi tentarono di reagire e proclamarono lo stato di emergenza, che durò otto anni e venne sospeso solo nel 1960. Tanti personaggi che faranno poi la storia del Kenya vennero catturati e rinchiusi in campi di concentramento, e tra questi anche Kenyatta, condannato a sette anni di reclusione e confinato nella prigione di Kapenguria, nell’ovest del paese. Da quel momento gli inglesi capirono che dovevano dare qualcosa ai kenyani e iniziarono a programmare la transizione del paese verso l’indipendenza. [3]

Nello stesso 1960 venne promulgata una Costituzione provvisoria, vennero legalizzati i partiti politici e accordata agli indigeni una larga maggioranza nel consiglio legislativo. Nel maggio 1963 il KAU, ribattezzato KANU, che auspicava uno stato unitario, vinse le elezioni, e in giugno Kenyatta, presidente del partito, venne nominato Primo Ministro. Il partito rivale era il Kenya African Democratic Union (KADU), costituito nel 1960, con Ronald Ngala (tribù Giriama) come presidente, e Muliro (tribù Luhya) come vicepresidente. Il partito auspicava uno Stato federale. [4]

Il 12 dicembre del 1963 venne proclamata l’indipendenza ed esattamente un anno dopo il paese venne dichiarato una repubblica, con Kenyatta presidente. [5]

Gli anni di governo del “padre della patria” furono caratterizzati dall’autoritarismo, come praticamente è stato per tutti i leader africani, e Kenyatta rientra, nella tipologia creata da Jackson e Rosberg, nella figura del dittatore come “principe” al pari di Senghor in Senegal, Kaunda in Zambia e Tubman e Tolbert in Liberia, vale a dire quei capi di stato che sono riusciti a manipolare i loro entourage e le loro clientele, permettendo ad altri oligarchi di governare, ma che allo stesso tempo sono riusciti a riservare a loro stessi un ruolo che fosse super partes[6]

All’interno del KANU i dissidi tra i membri più importanti si fecero sentire presto, infatti Tom Mboya arrivò allo scontro con Oginga Odinga, il primo di formazione cattolica, il secondo di formazione marxista.  Questo portò Odinga ad abbandonare il KANU e formare nel 1966 un nuovo partito, il Kenya Popular Union (KPU), il primo partito di opposizione, con il quale cercò di portare il Kenya verso paesi come l’URSS e la Cina e staccarlo così da paesi capitalisti come l’Inghilterra [7]. Il partito d’opposizione riscuoteva però di un seguito solo tra i membri della tribù di Odinga, i Luo. Nel 1969 Tom Mboya fu colpito a morte per le strade di Nairobi, Odinga venne accusato da Kenyatta di essere il mandante dell’omicidio e per questo rinchiuso in carcere. [8]

[1] Parola che significa “anziano”, utilizzato qui come appellativo in segno di rispetto.

[2] Africa South of the Sahara 2010, p. 622.

[3] R. B. EDGERTON, Mau Mau. An African Crucible, I. B. Tauris & Co. Ltd, London 1990.

[4] S. N. BOGONKO, op. cit., pp. 248-249.

[5] Africa South of the Sahara 2010, p. 623.

[6] G. CARBONE, op. cit., pp. 61-62.

[7] Kenyatta venne definito dall’Economist come “il nostro uomo in Kenya”. Citato da A. M. GENTILI, Il leone e il cacciatore. Storia dell’Africa sub-sahariana, Editore Carocci, Roma 2008, p. 369.

[8] G. ARNOLD, Modern Kenya, Ed. Longman Group Ltd., London 1981, p. 78.